Che un proprietario o un amministratore delegato parlino in termini entusiastici della propria azienda non stupisce particolarmente. Che siano invece i dipendenti o i collaboratori a farlo suscita sempre una certa curiosità.
Forse è un retaggio dell’epoca in cui parlare bene dell’azienda e del “padrone” veniva bollato con epiteti poco edificanti; oppure, è un lascito imprevisto dei film di Fantozzi, per cui il lavoratore è vessato per definizione. Fatto sta che i tempi sono cambiati, il mondo del lavoro è cambiato e, in un’economia assai diversa da quella in cui sono cresciuti molti dei nostri genitori, le aziende sono decisamente più edotte rispetto all’importanza di valorizzare i propri dipendenti (che, a ben vedere, sono le risorse su cui investono con più continuità). Anche perché oggi ci sono i social, cassa di risonanza ben più forte e potente della vecchia bacheca aziendale: una frase o una foto pubblicata sul profilo personale si diffondono alla velocità della luce e arrivano dove prima avrebbero impiegato parecchio tempo per arrivare: altri talenti da assumere e altri clienti da conquistare.
L’employee advocacy come coinvolgimento dei dipendenti
Così è nata l’employee advocacy: la promozione di un’azienda organizzata coinvolgendo in prima persona i suoi dipendenti e collaboratori, magari a partire da quelli che già fanno personal branding sui social. Come una mossa di judo, questa pratica prende i pregiudizi che abbiamo visto (“Impossibile che un impiegato parli/scriva bene – e gratis – del posto in cui lavora”) e li ribalta a suo favore inducendo lo “spettatore esterno” a dire: “Se i dipendenti raccontano quello che fanno… deve proprio essere interessante!”.
Soprattutto attraverso i social, l’employee advocacy può contribuire al miglioramento dell’immagine aziendale attirando l’interesse di potenziali clienti, aumentando il coinvolgimento dei dipendenti e incrementandola fiducia dei consumatori. Negli anni numerose ricerche (Edelman, Cisco, Pew Research Center) hanno dimostrato come la credibilità dei dipendenti sia un elemento chiave nella comunicazione dell’azienda, soprattutto adesso che il lavoro è stato parcellizzato da distanziamento sociale e smart working. I post social dei dipendenti generano un engagement molto elevato, senza contare che le persone hanno molte più probabilità di leggere il post di un amico in relazione all’azienda in cui lavora, rispetto a un post pubblicato sul profilo dell’azienda stessa: nel primo caso, c’è interesse per l’esperienza di una persona che si conosce personalmente; nel secondo caso, c’è la diffidenza tipica che suscita la “pubblicità”, anche se il messaggio non è strettamente promozionale.
Contatti selezionati e referenti qualificati
Infine, ci sono altri due aspetti di rilievo. Da un lato, il parco amici/follower/contatti che ogni dipendente “porta in dote” su Facebook, Instagram, Twitter e LinkedIn garantisce una copertura potenziale e interessata senza bisogno di troppi investimenti onerosi. Dall’altro, magari non tutti ma almeno qualcuno dei dipendenti con interessi specifici potrebbe generare attenzione su tematiche affini anche per l’azienda, diventando un interlocutore in merito, sia sui media, sia per professionisti in linea con le posizioni aperte.
Esempi di employee advocacy
Ci sono vari livelli di possibile coinvolgimento dei collaboratori nelle attività social dell’azienda. La cosa migliore, possibile soprattutto quando c’è un calendario editoriale, è quella di avere un’attività pianificata, in grado auspicabilmente di viaggiare nel tempo pressoché in autonomia. Ecco alcuni esempi.
Aziende molto grandi hanno un vero e proprio calendario con cui, a turno, i dipendenti vengono coinvolti nella scrittura e nella condivisione. Le realtà più piccole possono considerare un impegno analogo, commisurato alle proprie possibilità. Certamente, in ogni caso, cercare di valorizzare le proprie azioni non strettamente commerciali porta a farsi domande utili sulla propria attività e a scoprire margini di miglioramento possibili nelle relazioni interne.
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